LA PSICANALISI SECONDO |
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"TU DEVI SAPERE CHE IL MITO E' UN DISCORSO BASTARDO" |
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Le mitologie sono narrazioni. Il periodo di maggior fulgore della mitologia è, ovviamente, l’epoca prescientifica, quando il sapere si confonde con l’essere e l’essere assume forme immaginarie (1). Ma anche agli albori dell’epoca scientifica nascono miti. Allora si tratta di miti particolari; sono, come sempre, narrazioni a tema, ma mettono a tema un argomento specifico in precedenza trascurato: proprio il sapere. Sono pochi, soltanto due, i miti moderni: il Faust e il don Giovanni. Il primo mito rappresenta la riappropriazione da parte del soggetto del sapere alienato nelle mani dell’altro, simbolizzato dal diavolo (2); il secondo mito mette in scena l’esercizio del sapere pratico su come è fatto l’altro per antonomasia, cioè la donna, senza per altro acquisirne altra esperienza che quella della vana ripetizione, come testimonia il catalogo di Leporello. L’attaccamento alla mitologia ha una sua patologia ; si manifesta come resistenza alla transizione dall’ontologia all’epistemologia. Questa patologia è la malattia professionale del teologo. “Il teologo deve amare i miti”, diceva Raimon Panikkar, come dire che l’umanista deve amare l’antropomorfismo. Grazie ai poteri conservatori della casta sacerdotale, che ha gestito finora i riti derivanti dai miti, la mitologia ha oggi assunto la forma della nostalgia patologica – tipicamente tra gli psicanalisti in Jung – che si esplica per lo più come fissazione all’ontologia. La melanconia, che ricorre nelle incisioni del Dürer, è rappresentata come donna – l’ontologia – accasciata accanto a un poliedro semiregolare sotto un quadrato magico (3); simbolizza la fissazione al mondo passato, da poco perduto, dei cari vecchi tempi ontologici, quando si poteva dire con certezza e determinazione che l’essere è e il non essere non è. La Fixierung di cui parla Freud e da lui posta come condizione logica della Urverdrängung, o rimozione originaria, ha questa giustificazione nella storia del pensiero. (Cfr. S. Freud, Die Verdrängung (1915), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. X, Fischer, Frankfurt a.M 1999, p. 250). Nella difficile transizione verso il discorso scientifico traspare la reale natura del discorso ontologico. Lo si vede con particolare evidenza nei miti imposti alla civiltà come miti di fondazione. Lì l’ontologia si rivela per quel che è: fondamentalmente il discorso del padrone, cioè di chi che ha il potere politico. È, infatti, il padrone – in termini freudiani il Super-Io – che decide cosa uno è e, attraverso la narrazione mitologica e attraverso i riti che la traducono in realtà sociale, impone a uno come deve essere. Il padrone ti impone di vivere ritualisticamente il suo mito, facendoti credere che sia tuo. Si chiama alienazione. Di conseguenza l’ontologia esclude la democrazia. L’essere non si discute. Come la legge, è uguale per tutti. Non è oggetto di voto, letteralmente di desiderio privato, né di votazione, letteralmente di scelta pubblica. Il desiderio e la democrazia sono possibilità che fanno capolino solo con la “libertà di filosofare intorno alle cose del mondo” (Lettera di Galilei a Cristina di Lorena, 1615). L’ontologia ammette solo la monarchia o, al più, l’oligarchia. Semplificando molto, l’ontologia consente solo il pensiero e l’azione religiosi. Per la libertà ripassate domani. Ditelo ai filosofi che si sono adoperati per rendere i Galilei, i Cartesio e gli Spinoza non avvenuti. Ditelo agli ontologi tipo Leibniz, Wolff, Kant e a tutti gli altri del coro. Oggi la mitologia fa ritorno per il rotto della cuffia epistemica, là dove si invoca il senso del mistero e della meraviglia, quindi di soggezione all’universo e a chi lo governa, che suscita in noi l’essere al mondo. La forma meno fanatica di questo ritorno, la forma che meglio scimmiotta l’andamento del discorso scientifico, è quella che propone il senso dell’enigma. In termini moderni, non si parla di enigma ma di problema; l’arte che tratta i problemi non è propriamente la scienza ma il problem solving. È, al fondo, una pratica ermeneutica, che stimola l’elucubrazione indiziaria e mira alla ricostruzione di storie verosimili, che stanno sotto la realtà apparente dei fenomeni. L’interpretazione porta alla luce la storia latente e l’interprete viene applaudito come uomo di scienza. È l’eterna e mai morta storia delle congetture che vengono confermate, che sta alla base di tutti gli insediamenti dottrinari all'interno delle scuole. (4) L’esempio più vicino allo psicanalista è il mito edipico freudiano, di cui Freud trovava indizi dappertutto nella vita del soggetto, al punto che davanti a lui non si poteva dire un numero a caso senza che Freud risalisse alla causa di tutto il determinismo psichico: il desiderio di scopare la madre e uccidere il padre. Un antidoto alla mitologia? Far crescere lo spirito scientifico, far decadere la superstizione astrologica nel determinismo, fino a che non si raggiunga quel livello di saggezza che ora è appannaggio delle religioni e di certe forme di umanesimo. Ma non dobbiamo farci illusioni. La saggezza scientifica è un frutto ancora acerbo. Io non ne mangerò ancora. Quattro secoli non sono bastati a farlo maturare a confronto dei cinque millenni (o più) in cui il discorso religioso ha tenuto saldamente in mano le redini del potere. E il mito non finirà mai? Certo che no. Il mito continuerà a nutrire il filone letterario del romanzo che, guarda caso, non esisteva nell’antichità. L’antichità aveva i miti, quindi non aveva bisogno di romanzi per raccontare la verità. I primi romanzi vengono concepiti in epoca moderna dai Rabelais e dai Cervantes, preceduti da novellieri come Boccaccio. Sono loro che annusano il cambiamento del vento, quando l’ontologia comincia a cedere il passo all’epistemologia e la verità comincia a preferire l’argomentazione alla narrazione. Chi non si è ancora accorto che il clima è cambiato è il filosofo. Il filosofo, a servizio del padrone, resta fissato all’ontologia. E continua a raccontarci le sue storielle sull’essere che appare nelle radure del bosco come un coboldo della mitologia nordica. Sono storielle non prive di un certo valore in quanto, essendo narrazioni, danno l’illusione che esista il tempo. Cominciano sempre così: “C’era una volta…” Concludo brevemente questa pagina come l'ho aperta. In più aggiungo una raccomandazione politica. La mitologia è un discorso "bastardo". Non ci sono più molti dubbi, credo. Ma come si tradurrebbe in termini moderni, meno antropomorfi, la stessa affermazione? C'è un termine tecnico per dirlo, che ricorre in più punti di questo sito. La mitologia è un discorso "non categorico". La mitologia tratta nozioni che non sono riassumibili univocamente in un concetto ben determinato: tratta della vita, della paternità, della femminilità, dell'inconscio e di altro per cui il soggetto vive la propria vita senza poterla dominare completamente. Ma parzialmente sì. Della vita, della paternità, della femminilità, dell'inconscio si possono dare diversi modelli diversi. Ciascuno adotta il suo. Ma sarebbe bene che nessuno imponga il proprio modello agli altri. Per logica, prima che per senso della democrazia: giusto perché una nozione non categorica non ammette di essere costretta dentro un solo modello. In generale, la mitologia esprime la volontà di ignoranza dei soggetti, in nome della preminenza del mistero nella vita individuale (mito personale) e collettiva (mito sociale). Una scienza dell'ignoranza come la psicanalisi non può trascurare la mitologia, magari senza farne oggetto di predilezione Riprendo l'argomento all'aggiornamento della pagina Modello di scienze dell'ignoranza. Note (0) Kant usa la stessa terminologia di Platone nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura a proposito dell'analisi di Hume del principio di ragion sufficiente, da er doch nichts anders ein Bastard der Einbildungskraft sei (1783, Prefazione; "che non sarebbe altro che un figlio bastardo della forza dell'immaginazione"). La coincidenza terminologica, pur a tanti secoli di distanza, tra Platone e Kant, il primo in riferimento alla mitologia, il secondo in riferimento all'eziologia, non mi sembra casuale. Infatti, la materia prima dei miti prescientifici è costituita dal coacervo delle relazioni di causa ed effetto tra fenomeni. Il mito della causa è anche la causa della diffusione del mito, inteso come scienza falsa o immaginaria. (Torna su) (1) Certamente arbitrarie, ma secondo l’arbitrio di chi? Vedi oltre. (Torna su) (2) Curioso! Il diavolo è noto come il mentitore per antonomasia. Come fa nel mito di Faust a possedere del sapere? Sarà un sapere falso, il suo, o un sapere del falso? Probabilmente vale la seconda alternativa. Infatti, l’avventura scientifica, di cui il mito di Faust rappresenta i primi passi, è tutta una lotta per strappare il sapere al falso, falsificando le false congetture. Nel mito di Faust il diavolo rappresenta il falso maestro; simbolizza il fatto che il nuovo sapere scientifico non ha bisogno di maestri per costruirsi; la verità del mito è che d’ora in poi tutti i maestri sono falsi. (Torna su) (3) Cos’ha di magico un quadrato magico? (4) Le congetture non si possono confermare ma solo confutare. (Torna su)
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